Il pensiero

Oppositore religioso al fascismo, Aldo Capitini si definiva “libero religioso”, “post-cristiano” e “indipendente di sinistra”. Laico nel senso genuino del termine, ovvero sempre aperto al dialogo costruttivo al di là di ogni forma di chiusura (dogmatica, confessionale, partitica…), impegnato in un lavoro di profonda riforma religiosa, è stato un attento critico della religione istituzionalizzata a favore di una riapertura della questione religiosa in chiave di Religione aperta (opera del 1955 messa all’Indice sotto il pontificato di Pio XII).

Il suo pensiero si concentra su alcune idee ricorrenti e tra esse strettamente interrelate: la compresenza di tutti gli esseri cooperanti alla costruzione dei valori (del 1966 è il suo intenso libro La compresenza dei morti e dei viventi); la persuasione (mutuata dal goriziano Carlo Michelstaedter) ed in particolare la persuasione nonviolenta; l’apertura e l’aggiunta; il liberalsocialismo (del quale Capitini stende il manifesto assieme all’amico fraterno Guido Calogero) e l’omnicrazia come potere di tutti e forma di ottimizzazione permanente della democrazia (Il potere di tutti venne edito postumo, nel 1969).

La nonviolenza, nello specifico, si presenta in Capitini come una forma di affetto e una prassi di cura affettuosa verso tutti gli esseri, tendente a superare l’“insufficienza della realtà” per la quale la violenza, riproponendo lo schema ‘naturale’ del pesce grande che mangia il pesce piccolo, pretende di dettare le regole dell’agire sociale. La persuasione nonviolenta guarda pertanto alla “realtà liberata” in cui ciascun essere possa vivere senza subire né procurare ad altri violenza.

In questo senso, il fascismo non è solo uno, cioè non è solo quello storicamente determinato del regime mussoliniano, contro il quale Capitini testimoniò la propria opposizione nonviolenta in quanto “errore morale e sociale” (così in Elementi di un’esperienza religiosa, 1937). Esso corrisponde piuttosto in un atteggiamento e una visione del mondo liberticidi e strutturati sulla base dell’autoritarismo e della logica della violenza totalitaria.

Con segno opposto a quanto proponeva Machiavelli, Capitini insiste sulla imprescindibilità di una rigorosa coerenza di mezzi e fini: se si persegue un nobile fine, i mezzi scelti devono necessariamente essere nobili anch’essi, per cui si può sperare nella pace se e solo se ad essa si lavora con mezzi pacifici e in virtù di un metodo nonviolento che passa attraverso Le tecniche della nonviolenza (titolo di un agile manuale del 1967).

All’interno del pensiero capitiniano, pertanto, assume un ruolo di primissimo piano la dimensione educativa, che è educazione aperta, educazione alla lotta politica, educazione al “parlare e ascoltare” – secondo il motto dei C.o.s., i Centri di Orientamento Sociale fondati da Capitini all’indomani della Liberazione – e quindi educazione alla socialità.